Dicembre apre le porte a un’altra grande traduttrice. Per la nostra rubrica #SEMtranslation, giunta al quarto appuntamento, abbiamo intervistato Maurizia Balmelli, traduttrice tra gli altri, di Il cielo in gabbia di Christine Leunens.

-Come ti poni di fronte al rapporto traduttore-traditore?

Questa del traduttore/traditore mi è sempre sembrata una falsa pista. La traduzione, così come la scrittura, è trasmissione; e ogni forma di trasmissione implica un compromesso, uno slittamento, un aggiustamento.

Semmai è più pertinente parlare della pertinenza delle scelte; dell’abilità, attraverso la comprensione del testo che ci sta di fronte, di mettere a fuoco gli aspetti che di quella scrittura vanno privilegiati. Questo a livello macro ma anche microscopico: una frase, una parola: cosa deve prevalere, qui? L’andamento ritmico? l’accento? il tono? il significato?

La traduzione – come la scrittura, come la trasmissione, come qualsiasi tipo di comunicazione, di incontro – comporta un’estenuante ma anche esaltante successione di scelte. E quindi mi viene da dire che – più che di fronte al rapporto traduttore-traditore – di fronte al testo, sempre, bisogna armarsi di dedizione e coraggio.

– Quali sono le difficoltà principali che devi affrontare rispetto allo stile di un autore/autrice?

Be’, dipende dallo stile e dall’autore. La difficoltà primaria, direi, è proprio quella di individuare le difficoltà da affrontare. Individuare le difficoltà ovviamente non significa per forza saperle superare. Ma quella è la rotta da tenere. Ci sono casi in cui la sintonia con un dato stile è immediata; in altri la si raggiunge per approssimazioni progressive; in altri ancora la si rincorre fino all’ultima pagina – e allora per il revisore sono sorci verdi. Il fatto è che non esiste scrittura che si possa definire atonale. E in traduzione, trattandosi di scrittura, l’alchimia sta nel sintonizzarsi, o quantomeno adeguare la propria scrittura a quella che si traduce.

-Preferisci il confronto con l’autore/autrice o risolvere con le note?

Una cosa non esclude l’altra. Ma la mia preferenza va al confronto con l’editor (se e quando in presenza di editor competente), perché guardiamo al testo dalla stessa sponda, quella dell’italiano; e, sempre che l’editor sappia davvero mettere le mani in pasta, possiamo confrontarci su percorsi, scogli, interpretazioni e ipotesi di traduzione. Con uno degli autori che traduco, Aleksandar Hemon, ho stretto una profonda amicizia; ogni volta che sto lavorando su un suo testo, a un certo punto mi dice o mi scrive: allora? Domande? E io puntualmente mi ritrovo a dirgli: non offenderti, ma non ne ho. Con un altro autore che avevo contattato a inizio traduzione mi sono ritrovata a prendere un tè per sottoporgli cinque domande costruite ad hoc – avrei potuto fare a meno del suo aiuto, ma non volevo deluderlo. Poi, certo, mi è capitato di prendere a testate la traduzione francese e quella tedesca di un capolavoro come Suttree cercando risposte che non riuscivo a trovare né nel mio orizzonte né in quelli – ma Cormac McCarthy non ama essere disturbato (e forse va bene così, perché avrei temuto le sue risposte).

-Probabilmente si perde qualcosa, ma se ne guadagna un’altra. Qual è la grande conquista di un traduttore?

Vorrei dire che la grande conquista del traduttore è la lingua che guadagna a ogni libro. Sempre più spesso, nel corso di una conversazione più o meno impegnata, o mentre scrivo qualcosa di mio, mi capita di accorgermi che la mia lingua è intessuta di tributi ad altre lingue/scritture. E soprattutto, la consapevolezza che ho della mia lingua non smette di crescere. Tutto ciò naturalmente va a vantaggio delle mie traduzioni future. E mi piace pensare che attraverso di me, traduttrice, anche le scritture degli altri si compenetrino e arricchiscano.