Continua la nostra rubrica #SEMtranslation. Per gennaio abbiamo intervistato Alessandra Osti traduttrice di L’ora del destino di Victoria Shorr.

Come è stato tradurre L’ora del Destino di Victoria Shorr?

Emozionante. Questa è la prima parola che mi viene in mente. Macinavo pagine su pagine, presa dalla vita delle tre donne con un’intensità pazzesca. Persino durante la revisione del testo, nelle varie riletture, mi trovavo disperata sotto al rogo di Giovanna, infuriata durante i suoi processi… preoccupata di dove sarebbe andata a vivere Jane, se avrebbe mai ritrovato la sua “room of one’s own”… e per Mary, indignata per la sfacciataggine di sua sorella, e commossa davanti al suo amore e ai suoi atroci lutti… insomma, ho vissuto con quelle tre donne straordinarie per tutto il tempo in cui ho lavorato al testo. Non avrei potuto desiderare miglior compagnia…

Come ti sei posta di fronte al rapporto “traduttore-traditore”? Ti sei confrontata con l’autrice?

Direi che se un testo viene tradotto non viene tradito, se viene riscritto allora sì. Mi sono sempre posta davanti alle parole degli altri con grandissima umiltà, quando traduco in realtà collaboro idealmente con l’autore, abbiamo lo stesso obiettivo finale: rendere fruibili agli altri pensieri, storie, idee. Resto sempre concentrata sul veicolare la voce di chi ha scritto. Ho fatto tutte le domande che ritenevo necessarie alla Shorr, per me è stato un ottimo scambio. Si è dimostrata disponibile, attenta e gentilissima. 

Quali sono le difficoltà che hai affrontato lo stile dell’autrice?

Ero molto curiosa fin da prima di avere il libro in mano, perché avevo avuto il privilegio di conoscere Victoria Shorr, e mi aveva fatto un’ottima impressione, è una donna molto colta, impegnata, empatica e divertente. Ricordo di aver pensato che se la sua lingua scritta fosse stata simile a quella parlata, non avrei avuto problemi a tradurla; sono convinta infatti che se un libro è ben scritto, bisogna mettercela tutta per fare una brutta traduzione. Aggiustare una frase squilibrata o poco chiara per farla “funzionare” nella lingua di arrivo è molto più difficile che non lasciarsi andare e seguire la lingua di partenza. E lo stile della Shorr la rispecchia. È immediato ma curato, adopera vari registri, ma riesce a mantenere la misura. Direi che la difficoltà principale che ho trovato è stata quella di controllare la mia impulsività.

Probabilmente si perde qualcosa, ma se ne guadagna un’altra. Qual è la grande conquista di un traduttore?

Qualsiasi cambiamento comporta perdita e guadagno, e non è diverso per una traduzione, credo. Di certo si perde la sonorità particolare dell’inglese e il ritmo. Si guadagna forse in musicalità. Quanto alla conquista, ritengo che far sì che un testo non sembri tradotto sia quella più grande. Quindi per me la scomparsa del traduttore è il più gran risultato e la maggior conquista!